Dov’è la funzione pubblica della cooperazione sociale?
3 Settembre 2024
Appunti per tornare a rendere conciliabile l’inconciliabile
Testo di Andrea Morniroli, pubblicato sul numero 372/2024 della rivista Animazione Sociale
Troppe volte le cooperative, schiacciate da politiche di disinvestimento sul welfare, ma anche da una rincorsa insensata ai tecnicismi o allo scimmiottamento del profit, hanno finito per scivolare in logiche, dinamiche e modalità distanti dalla loro storia.
Interrogarsi sul proprio fare, individuale e collettivo. Ridefinire la direzione e il senso del lavoro con le persone. Sentirsi parte protagonista
della funzione pubblica. Provare a capire cosa significa oggi essere cooperazione sociale mi sembrano terreni di domanda e riflessione quanto
mai urgenti e indispensabili per non correre il rischio che – di fronte alla crisi dei servizi e del sistema di welfare – il mondo della cooperazione finisca per essere relegato in un ruolo meramente contenitivo e prestazionale. O, peggio, per essere complice più o meno consapevole delle spinte tese alla privatizzazione delle prestazioni.
Mi paiono domande utili anche come antidoto a non cadere nell’errore fatale di agire in difesa, di rintanarsi nel consolidato, in quello che sappiamo fare, anche fare bene, ina perdendo in tal modo la capacità di guardare oltre, di «immaginare il possibile», di perdere visione. In altre parole, di perdere, per timore o per pigrizia, la capacità di ribaltare la prospettiva, di sconfinare tra attori, contesti e discipline, di svelare le mancanze, di attivare vertenze, insomma di tornare a «rendere conciliabile l inconciliabile».
Per ripartire da questi temi diventa importante collocarli dentro la cornice più ampia del rapporto che c è tra cooperazione sociale e «funzione pubblica», provando a capire come in tale analisi e riflessione si possa riattivare un processo che aiuti la cooperazione a definire un «noi collettivo» che oggi è difficile da trovare perché la cooperazione, nei fatti, non è più un soggetto omogeneo, ma un contenitore in cui si trova tutto e il contrario di tutto.
Prima che imprese, siamo soggetti politico-culturali
Per prima cosa interrogarsi su come la cooperazione sociale possa mantenere una funzione pubblica significa mettere al centra la necessità di tenere in equilibrio le esigenze di impresa e di bilancio con l’essere attore di politiche pubbliche. Perché è in questo equilibrio che le cooperative possono recuperare un ruolo che supera il mero piano prestazionale di gestione dell’esistente per tornare a essere soggetti capaci di «fare bene», di agire sui «qui e ora» avendo allo stesso tempo la prospettiva del cambiamento, e per questo di essere soggetti politico- culturali.
Come scrive Luca Pazzi nell’articolo che ha aperto il dibattito su questa rivista, solo ripensandosi dentro una funzione pubblica la cooperazione sociale può «ricordarsi che prima di essere soggetto imprenditoriale ed economico è un attore politico». Può ricordarsi e agire in coerenza con l’idea di essere un soggetto imprenditoriale democratico e collettivo che si pone in equilibrio tra solidarietà e mercato, restituendo potere alle persone e utilizzando il profitto derivante dalle sue attività per migliorare le condizioni di lavoro e per restituire benessere alle comunità in cui opera.
Non è facile essere dei bravi equilibristi
In questi anni troppo spesso abbiamo perso tale equilibrio. Per questo mai come oggi il mondo della cooperazione sociale deve aprire una riflessione sul proprio ruolo e sulla propria prospettiva, sapendo che tale confronto, per essere concreto e utile, non può limitarsi a guardare al fuori da noi, a segnalare o denunciare gli effetti di un costante sistema di sottrazione economica e culturale che si è abbattuto in questi anni sul welfare. Queste denunce, sacrosante, devono essere accompagnate dal coraggio di mettere in luce e affrontare le criticità che in questi anni hanno spesso svuotato di senso e depotenziato la capacità delle cooperative di produrre sia buoni servizi che prospettive e politiche di cambiamento.
Solo coniugando tali due aspetti potrà essere definita una nuova prospettiva comune in cui riconoscersi e una direzione verso cui andare e su cui orientare il proprio lavoro. Perché sappiamo che:
“La forma cooperativa, che ha rappresentato lo strumento più diffuso di imprenditorialità sociale, ha in vari contesti perso molti contenuti di mutualità e di co-progettazione con il pubblico, facendosi impresa con ben poco di “sociale». E troppo spesso accettando di sostituirsi malamente allo Stato nella gestione dei servizi, nell’ambito del sociale o di servizi pubblici a basso contenuto tecnologico.”
Ma perdere l’equilibrio significa ridursi a gestori
In altre parole, troppe volte le cooperative, schiacciate da politiche di disinvestimento e da forti spinte alla privatizzazione, ma anche da una rincorsa insensata ai tecnicismi o allo scimmiottamento delle imprese profit, hanno finito per scivolare in logiche, dinamiche e modalità distanti, a volte molto distanti e in forte contraddizione con quanto raccontiamo nelle narrazioni pubbliche su di noi e sulle nostre attività. Perché nei fatti l’aver accettato il ruolo di soli attuatori ci ha esposto al rischio sia di gestire servizi contenitivi e istituzionalizzanti, sia di colludere con spinte di smantellamento e privatizzazione del sistema di welfare.
E in questa deriva a volte abbiamo messo a rischio e in alcuni casi perduto il nostro bene più prezioso: il rapporto con le persone che fanno le nostre cooperative – i soci e le socie, le lavoratrici e i lavoratori – minandone il senso di appartenenza e di fiducia, rinunciando e svuotando uno dei valori fondanti delle nostre imprese: quello di tutelare, promuovere e valorizzare il lavoro, riconoscendo la sua dignità.
Anni di destrutturazione di cultura dei diritti
Certo tutto questo è stato favorito da una sorta di inversione a «u» delle politiche pubbliche che non solo hanno smesso di redistribuire ricchezza attraverso il prelievo fiscale su welfare, scuola, salute, ma hanno subito una vera e propria mutazione. Uno Stato che ha smesso di considerare come propria responsabilità l’esigibilità dei diritti, piegando la propria funzione più su imperativi economici che non sul piano dei diritti e della cura del bene collettivo. A tal punto che oggi la mera proprietà pubblica di un servizio o di una prestazione non ne certifica nei fatti la sua funzione pubblica (ad esempio garantendone come prima cosa l’universalità di accesso). In breve, in molti contesti il pubblico sembra essersi piegato al «mercato» e al modello individualista, in un mix micidiale.
Una narrazione invasiva ha cambiato il senso comune del Paese
La stessa idea di cura, pensata come responsabilità pubblica, in un’ottica inclusiva ed emancipativa, agita nelle e con le comunità e non fuori da esse, è stata via via smantellata spingendo e orientando le politiche verso ipotesi tese
“a mettere a profitto larga parte degli interventi attraverso la privatizzazione (messa a profitto della sofferenza); a scaricare sulla famiglia molti compiti di cura; a spostare la dimensione dell’intervento pubblico sul piano del contenimento e dell’istituzionalizzazione piuttosto che su logiche inclusive agite dentro alle comunità in un’ottica di responsabilità collettiva e pubblica; a guardare alle persone come recettori di prestazioni anziché come soggetti dotati di voce, co-decisori e co-produttori delle politiche; a mettere a repentaglio l’universalismo dei diritti favorendo risposte residuali, categoriali e di ritorno a un welfare censitario; a svalutare il lavoro sociale, bene primario per la collettività in quanta attuatore delle condizioni fondamentali a una vita dignitosa.“
Uno smantellamento culturale e politico, prima ancora che economico, che è stato preparato e nutrito da una narrazione invasiva, spesso basata su semplificazioni e rappresentazioni strumentali della realtà, che nei fatti ha cambiato il senso comune del Paese, trasformando i poveri in colpevoli della loro condizione fino ad arrivare all’assurdo che il problema non sembra più la povertà ma come trattare i poveri; dove il disagio viene criminalizzato e le persone fragili perdono umanità, narrate non più come individui ma come categorie rappresentate in negativo, sdoganando nei loro confronti indifferenza e rancore; dove le disuguaglianze sono normali e dove il privato è sempre meglio del pubblico.
Dove il merito è proposto solo come accumulazione di patrimoni e non come frutto delle capacità e degli investimenti delle persone. Una destrutturazione della cultura dei diritti che ha consentito politiche prepotenti, perché imposte senza dialogo sociale. Perché feroci con i fragili. Perché fondate sul rifiuto di ogni ipotesi universalistica in quanto centrate su un approccio corporativo, identitario e paternalista («i diritti tè li devi meritare»).
Cosa chiediamo oggi al pubblico
Di fronte a questa «tempesta perfetta» c’è bisogno che sia il pubblico, sia la cooperazione investano in una profonda rivisitazione del proprio fare. Serve un ribaltamento di prospettiva per provare ad attivare un cambiamento in positivo.
Che non deleghi, ma coordini
C’è bisogno di un pubblico collaborativo e generativo che – come prima cosa – si impegni a non delegare la propria responsabilità e torni a rivendicare un suo ruolo di governo, coordinamento e programmazione, come condizione necessaria a garantire un accesso universale al sistema di servizi e più in generale alla ricchezza collettiva.
E che si impegni a fare ciò in un rapporto virtuoso con gli altri attori sociali, in primis la cooperazione, favorendo la messa a sistema della miriade di esperienze, pratiche e metodi diffusamente presenti in giro per il Paese. Che da tempo resistono alla dismissione della cultura dei diritti e realizzano cose a volte straordinarie, ma che appunto, proprio per l’assenza di un governo pubblico, rischiano di rimanere rinchiuse nel recinto dello «straordinario» e quindi di non diventare mai politiche pubbliche.
Allo stesso tempo un pubblico consapevole che, nella complessità e nella intersezionalità dell’oggi, vi è bisogno di ripristinare un’idea di funzione pubblica pensata come ambito collettivo, agita dentro alle comunità e non fuori da esse, in un’ottica inclusiva con le persone al centro, riconosciute – con le loro comunità – come protagoniste e non come beneficiarle degli interventi.
E in tale ottica un pubblico che la smetta di considerare la cooperazione come mero gestore di politiche altrui, guardandola come risorsa ancillare o come serbatoio di manodopera a basso costo è non invece come attore competente e riflessivo e per questo indispensabile
a riattivare politiche pubbliche con al centra le persone e i loro diritti.
Che renda abitabili luoghi dove co-programmare e co-progettare
Un pubblico così consapevole della propria funzione, così competente e lungimirante da uscire dalla sola logica delle politiche calate dall’alto, piegate alla logica del bando o del pareggio di bilancio (non attente ai luoghi, incapaci di riconoscere e attivare risorse e pratiche territoriali), e aprire e rendere abitabili luoghi di co-programmazione e co-progettazione.
Dove la caratteristica di essere pubblico non si basi sull’effimera dimensione della consultazione e dell’ascolto, ma sulla concreta e affermata disponibilità a condividere potere sugli indirizzi e le risorse. E dove pratiche basate sull’integrazione virtuosa diventino la chiave per avviare un processo di trasformazione del sistema di welfare, e, con esso, del sistema sanitario, passando da forme assistenziali, contenitive e istituzionalizzanti, costose e inefficaci, spesso disumane e divoratrici di capitale sociale e delle capacità delle persone, verso modelli di welfare comunitari, generativi, strutturalmente intrecciati con sistemi di economia civile produttiva che, al contrario, amplificano il capitale e la coesione sociale, le libertà e le capacità delle persone e, insieme, le risorse economiche.
Che torni a considerare il welfare una priorità
Un pubblico che torni a considerare le politiche di welfare, insieme a quelle di contrasto delle disuguaglianze è delle povertà, come priorità. Come presupposto stesso dello sviluppo e non come suo esito. Perché, come dimostra ogni evidenza empirica, la crescita economica, al contrario di quanto teorizzato dagli approcci classici dell’economia, è correlata al livello di coesione e capitale sociale dei territori e al grado di espansione delle libertà personali sulle principali aree dei funzionamenti umani (abitare, lavoro, conoscenza, socialità, partecipazione).
Tale correlazione appare sempre più evidente in gran parte del nostro Sud. Contesti solidali e cooperativi e alte capacità delle persone sono infatti in grado di riattivare desideri, aspettative progettualità dei soggetti e quindi le economie dei territori. Al contrario progressiva diseguaglianza, deprivazione culturale e relazionale, frammentazione sociale, precarizzazione del lavoro e dei sistemi di welfare oltre una soglia minima di tolleranza determinano una sorta di povertà-trappola, avvitando le dinamiche economiche verso trend irreversibilmente
regressivi ed escludendo dal mercato del lavoro, ma anche dal sistema di relazioni sociali, risorse potenziali straordinarie quali giovani e donne.
Perché, senza un impegno comune e paritario, pubblico e privato sociale non possono pensare di rispondere da soli in modo adeguato ai bisogni sociali, sanitari e sociosanitari che esprimono oggi le nostre comunità. Eppure, farlo è questione centrale, perché il nostro Paese potrà ripartire solo se riuscirà ad andare oltre l’approccio liberal-individualista e se saprà promuovere e strutturare forme evolute di economia
civile capaci di porre la libertà delle persone più fragili, la progressiva costruzione di eguaglianza e la sostenibilità ambientale quali vincoli esterni della logica dell’efficienza e della massimizzazione del profitto.
Cosa chiedere oggi a noi cooperative sociali
Ma se è questo quello che dobbiamo chiedere al pubblico, per farlo, dobbiamo metterci a repentaglio anche come cooperative sociali. Perché
non vi è dubbio che oggi abbiamo la necessità, anzi l’urgenza, di ridefinire un «noi collettivo», che ci aiuti a riscrivere cornici, senso e prospettiva dell’impresa sociale.
Di ricollocarci dentro una funzione pubblica
Schiacciate nell’assedio determinato da una parte dall’aumento della complessità e delle profonde disuguaglianze, povertà e lacerazioni
dei contesti in cui lavoriamo e dall’altra dal costante attuarsi nelle politiche pubbliche di un disinvestimento sui temi del welfare, della salute, dell’educazione, le nostre «imprese» sociali, come abbiamo già affermato, rischiano di disperdere il loro patrimonio insieme alla coerenza con la propria storia.
Vanno dunque ridefiniti orientamenti e indirizzi su cui riposizionare la rotta e il cammino ed è proprio nel ricollocarsi dentro a una funzione pubblica che la cooperazione può riuscire a andare in tale direzione, provando a ridare senso a quello che oggi è il suo fare e il suo essere non tanto «impresa» ma «intrapresa» sociale.
Per rivendicare con forza che la cooperazione sociale, ma in generale tutta la cooperazione perché impresa democratica e collettiva, può partecipare a pieno titolo alla costruzione di un alternativa al neo-liberismo.
Di reinterrogare il nostro essere e fare
Orientamenti e indirizzi hanno la funzione di aiutarci a rileggere il nostro fare – e riposizionarlo – alla luce del nostro essere soggetti culturali-politici, prima ancora che economici. Sono orientamenti e indirizzi che nascono dal chiederci:
- stiamo riuscendo a tenere in equilibrio le esigenze di impresa (prima fra tutte il lavoro dei soci e delle socie, dei lavoratori e delle lavoratrici) con la nostra mission?
- c’è coerenza o distanza tra i modelli di democrazia che come cooperative proponiamo per le comunità attorno a noi e quelli che proponiamo e pratichiamo nella governance interna delle nostre organizzazioni (es. stiamo favorendo il ricambio generazionale? stiamo rendendo accessibili i luoghi decisionali? come responsabili stiamo cedendo rappresentanza e responsabilità? come organizzazione ci stiamo prendendo cura di chi cura?)?
- attraverso il nostro lavoro riusciamo a restituire voce, protagonismo e potere alle persone con cui lavoriamo oppure, per rinuncia, impotenza o interesse, finiamo per trattenere quel potere?
A questi temi si somma la capacità di:
- costruire alleanze (volutamente non uso la parola rete) in grado di determinare aperture in un momento in cui tutto sembra chiudersi, di rammendare fili e legami in un momento in cui tutto sembra lacerarsi;
- di produrre innovazione (non di maniera) intesa come cambiamento, come capacità di determinare il possibile;
- infine, anche di svelare mancanze e di denunciare e aprire vertenze.
Di non rinunciare a essere luoghi del cambiamento
Più in generale, la ridefinizione di un noi collettivo più coerente con la nostra storia e capace di guardare in avanti ci permette di pensare a un nuovo e più ragionato e forte rapporto con la politica, più autonomo e non collusivo, capace di essere collaborativo ma anche critico e autonomo; non spaventato dal conflitto; consapevole di avere saperi forti, perché centrati sulla realtà e non sulla sua rappresentazione
o semplificazione.
Solo attraverso tale prospettiva le nostre imprese possono agire nel miglioramento della vita e dei livelli di autonomia delle persone e
diventare «luoghi del cambiamento». Luoghi capaci di:
- intervenire sulla riduzione delle disuguaglianze – perché in grado di abilitare le persone, riconoscendone le risorse e i talenti e non solo
le fragilità e le mancanze; - recuperare una relazione tra l’«intervento pubblico» e quelle aree di popolazione che si sentono abbandonate e non riconosciute dai centri e dai decisori;
- rafforzare e rendere prossimi i presidi sociali e sanitari;
- favorire il salto culturale necessario per passare dal concetto di sanità a quello di salute;
- riportare la cura dentro alle comunità, in un’ottica di inclusione, riconosciuta come responsabilità pubblica e collettiva.
Di dimostrare che una alternativa è possibile
Per concludere dobbiamo rimettere al centro tra le nostre priorità anche quella di rafforzare il pubblico, costruendo con il pubblico stesso una rinnovata alleanza, come condizione per agire la nostra dimensione politica e culturale, senza la quale mi pare di poter dire che nei fatti il «nostro lavoro semplicemente non è».
Qui, in questa rinnovata funzione pubblica, possiamo ritrovare anche la capacità e le parole per tornare a orientare il senso comune verso una dimensione collettiva, di cura più che di rancore. Possiamo tornare a convincere. Perché come scriveva Franco Basaglia nelle Conferenze brasiliane (1979):
“Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere.”
Ma quando convinciamo mettiamo in moto un processo che è difficile da arrestare.