Le persone provenienti da El Salvador. Sintesi dai progetti Yalla e Il Punto
27 Dicembre 2023
Attraverso le attività di sportello dei progetti “Yalla” e il “Punto” (comprensivo di tutte le sue annualità), la Dedalus ha avuto la possibilità di affrontare un fenomeno abbastanza nuovo nella città di Napoli, vale a dire la presenza sempre più consistente sul nostro territorio di persone provenienti da El Salvador.
Negli ultimi anni, infatti, i nostri sportelli si sono caratterizzati da richieste di supporto per la procedura per il riconoscimento della protezione internazionale da parte di diverse persone provenienti da questo paese. Si è entrati così in contatto con persone straniere che fuoriescono dall’immaginario solito dei richiedenti asilo che giungono in Italia da paesi africani e asiatici a seguito di sbarchi e/o collegati ad operazioni di soccorso via mare, ma che giungono in Italia dal Centro e dal Sud America via aerea, non senza difficoltà.
Si tratta soprattutto di nuclei familiari salvadoregni in cui è di solito presente solo la madre con figli minori e maggiorenni, mentre il padre è rimasto in El Salvador, per diverse ragioni, in alcuni casi in regime di detenzione. Sono stati pertanto presi in carica interi nuclei familiari, più raramente persone singole, che ci sono giunte comunque attraverso coloro che seguivamo in seguito ai risultati positivi ottenuti.
Soltanto nel primo caso affrontato, che riguardava una madre con una figlia minore (oggi maggiorenne), la domanda di asilo era stata già presentata in autonomia dalla donna, ma che non era stata ancora definita, che si era rivolta allo sportello per farsi supportare per la richiesta di protezione internazionale dell’altra figlia maggiorenne. Va specificato che la normativa sul tema prevede che i figli minori vengono inclusi nella domanda del genitore e l’eventuale riconoscimento di una forma di protezione si estende anche ad essi. I figli maggiorenni, invece, devono presentare domanda autonoma di protezione e affrontare separatamente l’audizione presso la Commissione territoriale.
Le due figlie frequentano da qualche anno le varie attività di Gomitoli, a cui si sono avvicinate anche grazie alle consulenze legali con la madre, che aveva tra l’altro chiesto informazioni circa attività di socializzazione e dopo scuola per le figlie. La madre aveva poca contezza rispetto alla propria domanda di protezione internazionale, motivo per il quale si è affidata ai nostri servizi per proseguire la procedura, in particolare per la preparazione all’audizione presso la Commissione territoriale, ma anche per tutte le altre pratiche amministrative e legali connesse alla richiesta di protezione. Per la figlia maggiorenne, come anticipato, le attività di sportello hanno riguardato la completa presa in carico per tutto l’iter della procedura per la protezione internazionale, così come è stato fatto in tutti gli altri casi di cittadini salvadoregni: dalla presentazione della domanda al conseguimento del permesso di soggiorno a seguito del riconoscimento della protezione.
Si tratta di percorsi che, senza contare i frequenti intoppi amministrativi che ne hanno prolungato notevolmente l’iter, hanno avuto per ogni richiedente una durata media di circa un anno e mezzo. Per altri aspetti e complicazioni amministrative varie , per alcune persone la presa in carico sta continuando. Fino ad oggi, sono stati presi in carico 9 nuclei familiari e una ragazza singola, per un totale di 28 persone.
Per meglio comprendere la portata e il significato del riconoscimento di questo tipo di protezioni, è necessario fare una panoramica della situazione socio-politica di El Salvador, al fine di avere un quadro più dettagliato dei motivi per i quali sempre più persone fuggono dal paese, ma anche per spiegare perché anche i salvadoregni già stanziati sul territorio da diversi anni, spesso in posizione di irregolarità, hanno deciso di presentare domanda di protezione internazionale, che è stata in effetti riconosciuta.
Nel 2015 El Salvador, con quasi 103 omicidi per 100.000 abitanti, è stato il paese con il più alto tasso di morti violente al mondo: 6mila omicidi l’anno. In proporzione, considerando l’anno di riferimento, è come se ci fossero in Italia una media di 60 mila omicidi all’anno (ce n’erano 400). Nel 2015, pertanto, il piccolo Paese di 6,5 milioni di abitanti e l’estensione dell’Emilia Romagna ha registrato più di 6600 omicidi, dovuti dagli scontri tra le principali gang criminali – la Mara Salvatrucha e le due fazioni del Barrio 18, che si stima contino su un esercito di più di 70 mila membri – e le autorità, in seguito alla rottura di una “tregua”.
Questa violenza è legata alla presenza di strutture criminali che vengono definite come “maras” e “pandillas”, un fenomeno che risale agli anni Ottanta, quando le bande criminali di latinos nate nelle strade di Los Angeles, sono state deportate dagli Stati Uniti. Hanno trovato territorio fertile in un paese caratterizzato da povertà e disagio sociale dovute anche a un conflitto violento durato più di dieci anni.
A partire dagli anni Novanta i governi di destra hanno promosso politiche di repressione del crimine e di arresti di massa. Questo ha prodotto fenomeni di sovrappopolazione delle carceri che hanno reso El Salvador uno dei paesi più problematici in materia di condizioni detentive. Nel 2014, con il governo di sinistra del FMLN, si è cercato di cambiare rotta creando il Consiglio Nazionale per la Sicurezza Cittadina e la Convivenza che promuove politiche che investono molto di più sulla prevenzione. Grazie all’aiuto della cooperazione internazionale si è realizzato il Plan El Salvador Seguro per promuovere la prevenzione e la persecuzione dei delitti con una componente molto importante di riabilitazione e reinserimento dei detenuti.
Nel 2018, l’imposizione di stretti regimi di isolamento nelle carceri e un lasciapassare per l’uso della forza da parte delle forze di sicurezza da parte del governo di Salvador Sánchez Cerén, hanno contribuito a dimezzare gli omicidi.
Un cambiamento ulteriore nell’ambito della sicurezza è avvenuto con l’avvento al potere di Nayib Bukele nel 2019. Nel 2020, gli omicidi quotidiani sono calati da 9 a 5, e nel 2021 addirittura a 3. Nonostante Bukele abbia attribuito i risultati alla sua politica di sicurezza, il Piano di Controllo Territoriale, è ormai assodato che essi siano stati il prodotto di negoziazioni segrete coi leader delle gang, con le quali il governo avrebbe barattato programmi sociali e migliori condizioni di reclusione a cambio di una riduzione della violenza e supporto elettorale nelle parlamentari del 2021, stravinte dal partito di Bukele, che nel 2022 ha cambiato rotta. Una rottura delle negoziazioni avrebbe spinto la principale gang del paese, la Mara Salvatrucha (o MS-13), a intensificare la violenza che ha portato 87 vittime in soli tre giorni a fine marzo. In risposta, il governo ha avviato quella che è stata chiamata “guerra alle gang”, imponendo uno stato d’emergenza, aumentando le pene per i crimini ad esse collegati e lanciando una campagna di arresti massivi senza precedenti. In quasi un anno, le autorità riportano la cattura di più di 64 mila presunti pandilleros (membri delle gang), arresti che hanno portato il totale della popolazione carceraria a circa 100 mila persone, ovvero il 2% della popolazione adulta del paese, la proporzione più alta al mondo. Il governo prevede di ospitare 40 mila criminali in un nuovo mega carcere costruito in tempi record e recentemente inaugurato, dove ogni detenuto avrebbe a disposizione 0,6 metri quadrati, meno della metà dello spazio che l’Unione Europea richiede per trasportare bestiame su strada.
Dal 1979 al 1992, il paese è stato interessato da una guerra civile combattuta tra l’esercito salvadoregno e le forze ribelli del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN).
Le gang hanno accusato il colpo, allentando il loro controllo territoriale e riducendo l’estorsione, il loro storico motore economico che colpiva circa un quinto delle attività economiche del paese. Il 2022, in effetti, ha chiuso come l’anno meno violento della storia recente del paese, con “solo” 495 morti violente, per un tasso di 7,8 omicidi ogni 100.000 abitanti. Anche l’approvazione pubblica riflette la percezione del miglioramento: circa l’80% dei salvadoregni appoggia il giro di vite.
Il “metodo Bukele”, però, non è esente da critiche. Difensori dei diritti umani come Human Rights Watch hanno denunciato l’inumanità di queste misure, che di fatto polverizzano il diritto di difesa e di giusto processo, documentato migliaia di detenzioni arbitrarie e riportato la morte di almeno un centinaio di persone in circostanze sospette nelle carceri. Il governo ha inoltre modificato i criteri di conteggio degli omicidi, escludendo per esempio i pandilleros uccisi dalle forze di sicurezza e i resti umani ritrovati in fosse comuni.
Bukele, forte dei risultati raggiunti e dell’accettazione popolare di queste misure, ha respinto le accuse al mittente. Tuttavia, il caso di El Salvador suscita due domande: se queste misure e i relativi risultati sono sostenibili nel tempo, e, ancora, se per combattere la criminalità si può sacrificare lo stato di diritto. Tra l’altro, ci sono state segnalazioni che accusano il governo o i suoi agenti di aver commesso omicidi arbitrari o illegali, in gran parte derivanti dalla morte di detenuti in carcere.
Nonostante tali discutibili misure di repressione governativa, la violenza tra maras rivali e quella perpetrata direttamente dagli agenti statali, non si è mai definitivamente interrotta e continua a imperversare nel paese. I giovani sono tra le principali potenziali vittime, e questo è il motivo per il quale spesso fuggono interi nuclei familiari. Le decisioni delle Commissioni territoriali che hanno riconosciuto una forma di protezione, sono la riprova dei rischi che corrono tra i maggiori rischi nel paese.
Ciò che accomuna le storie dei salvadoregni sono infatti racconti di intimidazioni quotidiane, estorsioni, limitazioni della libertà di movimento. Le gang controllano la popolazione civile in un clima di sostanziale impunità. In pratica, la popolazione civile è in preda delle maras, che possono ad esempio decidere in qualunque momento di appropriarsi di attività commerciali, oppure se una famiglia deve corrispondere un pizzo anche soltanto per transitare in determinate zone (anche per il tragitto percorso per andare a scuola) o pretendere una quota dei loro salari per qualsiasi ragione.
Per i giovani, come si diceva, la situazione è ancora più drammatica, in quanto principali vittime di rapimenti a fini estorsivi nei confronti delle famiglie e di tentativi di reclutamento all’interno delle maras. Le giovani ragazze, inoltre, corrono l’ulteriore rischio di subire stupri, come emerso anche nei casi seguiti a sportello.
I nuclei che abbiamo seguito hanno riferito esattamente questo tipo di dinamiche, l’impossibilità di vivere in piena libertà nel paese e le preoccupazioni che i genitori hanno per i propri figli. Molte madri hanno raccontato di aver provveduto personalmente ad accompagnare quotidianamente i propri figli a scuola in auto prima di recarsi al lavoro, oppure in diverse occasioni di essere costrette a tenere i figli chiusi in casa perché erano stati avvicinati dai membri delle per reclutarli, minacciandoli con la forza. Alcune minori con cui siamo entrati in contatto, prima di arrivare in Italia, avevano passato gli ultimi anni in El Salvador praticamente senza uscire mai di casa salvo che se non per andare a scuola, luogo anch’esso che, tra l’altro, non è sinonimo di sicurezza. Nelle scuole, infatti, frequentissimi sono atti di bullismo con violenze spropositate, tanto che alcune sono state costrette a chiudere a causa della violenza delle bande. I giovani che non sono stati già reclutati dalle bande, ma che vivono all’interno dei territori dove queste operano, hanno difficoltà a evitare di entrarci in contatto, (spesso capita di dover fare dei “favori”, ricevere pressioni sessuali e altre forme di soggiogamento).
Anche la situazione delle donne è particolarmente critica. Vari report riportano che negli anni 2015-2016 il paese ha avuto il più alto tasso di femminicidi del mondo. Le giovani sono sempre più spesso vittime di sparizioni forzate e la violenza tra le mura domestiche tocca picchi altissimi. Ci sono casi di violenza domestica da parte dei membri delle bande contro le loro spose e le componenti di sesso femminile della propria famiglia; le donne che si trovano in questa situazione spesso sono intrappolate in quanto qualsiasi tentativo di denunciare la violenza o di fuggire dalla situazione domestica potrebbe comportare l’essere prese di mira dalla violenza dei membri della banda e mettere in pericolo i loro familiari. Gli uomini appartenenti alle bande prendono arbitrariamente le donne anche senza il loro consenso assoggettandole a ogni tipo di violenza senza la possibilità di ricevere assistenza e tutela dalle istituzioni e i loro familiari vengono presi di mira e minacciati.
Queste storie sono emerse anche dai colloqui con le giovani ragazze che abbiamo seguito, che con estrema fatica hanno raccontato di aver subito molestie e/o violenze sessuali da parte di membri delle maras o dai loro familiari.
Dopo un iniziale periodo di assestamento in Italia, tutti i traumi subiti sono riemersi attraverso disturbi di diversa natura, motivo per il quale spesso i genitori hanno spesso chiesto consigli in merito a percorsi terapeutici per le figlie. Alcune di queste giovani ragazze sono attualmente seguite da specialisti.
Ci è stato riferito che rivolgersi alle autorità locali non sortisce alcun effetto, spesso le forze dell’ordine sono in combutta con le maras contro le quali non avrebbero comunque alcun potere. Denunciare alla polizia, aumenta soltanto il rischio di ripercussioni gravi da parte dei pandilleros che si accaniscono contro le vittime.
Prima di arrivare in Italia, alcune famiglie sono state costrette a lasciare la propria casa e trasferirsi in altre zone per sfuggire alle minacce, ma data l’organizzazione capillare delle gang criminali presenti ovunque, la soluzione finale è stata quella di fuggire all’estero. Inoltre, dato che le persone si trovano costrette a lasciare velocemente abitazioni e attività lavorative, di solito incorrono in importanti perdite economiche. Dal momento che non esiste un programma governativo per assistere gli sfollati interni, è stato documentato che ogni nuova migrazione forzata esaspera la spirale verso il basso delle loro condizioni di vita.
Per i nuclei presenti già sul territorio e con figli che hanno deciso di presentare la protezione internazionale, è stata riconosciuta la protezione sussidiaria, che a differenza del timore di persecuzione individuale che caratterizza lo status di rifugiato, contempla il rischio effettivo di subire un danno grave al rientro nel paese di origine, e nel caso di El Salvador, con particolare riguardo alla tutela dei giovani figli degli interessati, che riguarda anche bambini nati in Italia che non hanno mai vissuto nel paese di cittadinanza dei genitori.
Tra i motivi di riconoscimento di status di rifugiato per le persone giunte in Italia, le Commissioni hanno rilevato anche la loro (imputata) opinione politica, percepita come critica da parte dei membri delle bande. In altri termini, la decisioni di alcune di queste donne di ribellarsi alle estorsioni, di sottrarsi alle richieste dei membri delle maras decidendo di fuggire dal Paese portando con sé i propri figli, possono essere considerate come vere e proprie opposizioni “politiche” nei confronti della loro “autorità” criminali.
In più, quando cittadin* di El Salvador rientrano per diverse ragioni nel paese (rientri volontari ma anche e soprattutto per rimpatri forzati dall’estero, in primis dagli USA), le maras ne hanno immediatamente notizia. Chi rientra in El Salvador è individuato come soggetto che ha importato capitali guadagnati altrove, e quindi c’è il rischio di rapimenti e/o estorsioni, come documentato in numerose fonti che segnalano parecchi omicidi persone rimpatriate, così come corrono gravi rischi i minori e le persone della famiglia rimaste in patria.
Emblematica, a tal proposito, è stata la storia di un nucleo familiare composto da madre e figlia minore. La donna ha vissuto gran parte della sua vita da immigrata irregolare negli USA, dove è nata la figlia e che per le leggi statunitensi che prevedono lo ius soli, ha la cittadinanza americana. La donna, con seri problemi cardiaci, ha sempre avuto difficoltà per l’accesso alle cure a causa del sistema sanitario americano e alla sua posizione di irregolarità. In più, a seguito della separazione con il marito, la sua permanenza negli Stati Uniti è stata aggravata dalle politiche portate avanti dall’amministrazione Trump, che miravano a rispedire in patria i genitori irregolari separandoli dai figli con cittadinanza statunitense. La donna ha raccontato una vera e propria “caccia” ai genitori irregolari di origine sudamericana (appostamenti della polizia fuori dalle scuole, supermercati). La donna è stata quindi costretta a fare ritorno in El Salvador dopo quasi 20 anni in cui non era mai tornata per evitare che le portassero via la figlia. Vi è rimasta soltanto 15 giorni, perché le maras si erano immediatamente presentate alla sua porta chiedendo soldi e preso di mira la figlia, particolarmente appetibile perché con passaporto americano. In meno di tre giorni dal suo rientro in El Salvador, e nonostante la lunga assenza dal paese, i pandilleros della zona sapevano già tutto di lei e di sua figlia.
La Commissione territoriale ha riconosciuto alla donna lo status di rifugiata, estendendolo alla figlia minore: singolare che la figlia, cittadina americana, abbia un permesso di soggiorno per asilo!
Come si anticipava, a tutte le persone seguite è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale, che si traduce, sia per quanto riguarda lo status di rifugiato che per la protezione sussidiaria, in un permesso di soggiorno di durata quinquennale e rinnovabile, che offre quindi una regolarizzazione completa alle persone, permettendo loro di poter programmare un futuro nel medio/lungo termine in Italia. Sono forme di protezione che consentono, almeno sulla carta, parità di trattamento con i cittadini italiani, anche per le attività professionali. Consentono naturalmente l’accesso a diritti civili, comprese le prestazioni sociali. In merito a queste ultime, tramite “Il Punto” (che lo ha posto tra i suoi obiettivi di progetto) si è provveduto a fornire l’informativa relativa alla possibilità di poter percepire l’Assegno unico e universale, un sostegno economico per le famiglie con figli a carico attribuito per ogni figlio fino al compimento dei 21 anni (al ricorrere di determinate condizioni) e senza limiti di età per i figli disabili.
L’Assegno unico e universale spetta alle famiglie in cui ricorrono le seguenti condizioni:
– per ogni figlio minorenne a carico. Per i nuovi nati decorre dal settimo mese di gravidanza;
– per ciascun figlio maggiorenne a carico, fino al compimento dei 21 anni, che: frequenti un corso di formazione scolastica o professionale, o un corso di laurea; svolga un tirocinio o un’attività lavorativa e possieda un reddito complessivo inferiore a 8mila euro annui; sia registrato come disoccupato e in cerca di un lavoro presso i servizi pubblici per l’impiego; svolga il servizio civile universale; per ogni figlio con disabilità a carico, senza limiti di età., una misura rivolta.
Tutti i nuclei in questione hanno fatto richiesta e stanno usufruendo di tale misura, che rappresenta comunque un minimo di supporto economico per situazioni in cui le difficoltà finanziarie in Italia sono in ogni caso notevoli. Le madri, che in El Salvador avevano posizioni lavorative più che dignitose (sia in quanto a posizione che remunerazione) e che sono state costrette a lasciare per fuggire dal paese e preservare il futuro dei propri figli, si sono poi ritrovate in Italia a lavorare quasi in maniera esclusiva nel settore domestico e di cura alla persona, molto spesso in situazioni di lavoro “grigio” se non in maniera del tutto irregolare, nonostante i datori di lavoro abbiano la possibilità di contrattualizzare dato che sono provviste di permesso di soggiorno. In alcuni casi, le giovani figlie aiutano le madri o sostengono la famiglia negli stessi lavori in orari in cui non sono a scuola.
Da questo punto vista, si potrebbero forse immaginare interventi volti a consentire a queste famiglie, che sono state forzatamente sradicate dai loro contesti di origine, di poter condurre una vita maggiormente dignitosa.
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